Il termine “problem solving”, molto in voga negli ultimi decenni, indica il “complesso delle tecniche e delle metodologie necessarie all’analisi di una situazione problematica allo scopo di individuare e mettere in atto la soluzione migliore”.
Riferendomi al conflitto Siriano in primo luogo ed in generale a tutte le guerre, al terrorismo, alle dittature, il lavoro prende spunto dal termine per denunciare, con un chiaro accenno cinico, le modalità brutali dell’uomo quando si trova a “risolvere” le questioni con la violenza, includendo tanto le parti offensive quanto quelle che si offrono di portare la pace con l’uso delle armi.
Nel primo riquadro con la scritta “problem” (nascosta) si assiste al conflitto in essere, al disfacimento di ogni cosa, riassunto nel dolore negli occhi di un bambino e, nel secondo riquadro (scritta “solving”), si osserva il “panorama a pace fatta” (a suon di bombardamenti aerei, in alto a dx), ciò che resta dopo il conflitto: una luce che torna a splendere, ma un luce pallida e malata, che illumina i disastri compiuti, che riapre la speranza ma che non cancella la memoria né guarisce le ferite.
La tenda è il media, il “come noi osserviamo” certi fatti, ovvero attraverso il filtro dei mass media che ce li raccontano, a volte di parte, parziali e, in ultima tendenza, piene di strappi alle regole, tra post piene di immagini reali, tra fake news e bufale.